Verso la metà del '500 i secolari riti pagani di Carnevale, Quaresima, Maggio si assestarono in quella che venne chiamata la Commedia dell'arte e che gli stranieri chiamarono Commedia all'italiana. In quell'epoca nacquero le prime compagnie professionali stabili di attori di strada. Questi pionieri, maestri nell'arte d'arrangiarsi, capirono in fretta che per procurarsi da vivere dovevano rispecchiare i gusti popolari del loro pubblico, raccontare la loro vita quotidiana, imboccando, a differenza di altri teatri europei finanziati dalle corti, la strada del realismo, della comicità e dello sberleffo. E' cosi, per questo gioco di rispecchiamento che la comicità ha finito con lo scrivere l'autobiografia degli italiani fin da quando l'Italia non era altro che un imprecisato luogo geografico. Se il teatro elisabettiano poteva contare su una lingua comune e curare il rigore del verso e di un testo, per gli italiani viceversa altri dovettero essere gli elementi di riconoscibilità: pause più di parole, mimica più di testi, gergo più di eloquio. Lungo quattro secoli si snoda il filo di un'identità mediata dalle smorfie e dalle risate, plasmando un carattere comune degli italiani costruito a forza di battute e di corna, di trucchi e di imbrogli, di salti mortali e miserie. Arlecchino, Pantalone, Pulcinella sono prototipi di quel misto di furbizia e di cattiveria che fino a Totò hanno fatto trionfare in scena sempre gli stessi trucchi, gli stessi gesti rapidi e indolenti, le stesse burle, dietro a maschere un tempo di cuoio che hanno finito per appiccicarsi alla faccia del comico, come una seconda pelle dipinta di carbone, di cerone e di farina.
Verso la metà del '500 i secolari riti pagani di Carnevale, Quaresima, Maggio si assestarono in quella che venne chiamata la Commedia dell'arte e che gli stranieri chiamarono Commedia all'italiana. In quell'epoca nacquero le prime compagnie professionali stabili di attori di strada. Questi pionieri, maestri nell'arte d'arrangiarsi, capirono in fretta che per procurarsi da vivere dovevano rispecchiare i gusti popolari del loro pubblico, raccontare la loro vita quotidiana, imboccando, a differenza di altri teatri europei finanziati dalle corti, la strada del realismo, della comicità e dello sberleffo. E' cosi, per questo gioco di rispecchiamento che la comicità ha finito con lo scrivere l'autobiografia degli italiani fin da quando l'Italia non era altro che un imprecisato luogo geografico. Se il teatro elisabettiano poteva contare su una lingua comune e curare il rigore del verso e di un testo, per gli italiani viceversa altri dovettero essere gli elementi di riconoscibilità: pause più di parole, mimica più di testi, gergo più di eloquio. Lungo quattro secoli si snoda il filo di un'identità mediata dalle smorfie e dalle risate, plasmando un carattere comune degli italiani costruito a forza di battute e di corna, di trucchi e di imbrogli, di salti mortali e miserie. Arlecchino, Pantalone, Pulcinella sono prototipi di quel misto di furbizia e di cattiveria che fino a Totò hanno fatto trionfare in scena sempre gli stessi trucchi, gli stessi gesti rapidi e indolenti, le stesse burle, dietro a maschere un tempo di cuoio che hanno finito per appiccicarsi alla faccia del comico, come una seconda pelle dipinta di carbone, di cerone e di farina.