La regina che faceva la colf

Venuta in Italia dall'Africa nera scelse di tornare al suo villaggio

Biography & Memoir
Cover of the book La regina che faceva la colf by Nana Konadu Yiadom, Massimo Fini, Marsilio
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Author: Nana Konadu Yiadom, Massimo Fini ISBN: 9788831733564
Publisher: Marsilio Publication: May 23, 2012
Imprint: Marsilio Language: Italian
Author: Nana Konadu Yiadom, Massimo Fini
ISBN: 9788831733564
Publisher: Marsilio
Publication: May 23, 2012
Imprint: Marsilio
Language: Italian

Il piccolo pezzo di mondo occidentale si è rivelato il germe di una grande malattia. La malattia delle città. «Besoro è un piccolo villaggio immerso nella giungla subtropicale nel sud del Ghana, abitato dagli Ashanti, un’antichissima tribù, un tempo guerriera, che fino a un paio di secoli fa occupava vaste aree dell’Africa nera. A Besoro Modernità, Progresso e quella che noi chiamiamo civiltà non sono ancora arrivati. Una principessa del villaggio decide di fare un viaggio in Italia». (Dalla Prefazione de “La regina che faceva la colf”, di Massimo Fini). Nel libro “La regina che faceva la colf” Nana Konadu Yiadum (con Andrea Pasqualetto) racconta in prima persona la sua esperienza, sotto forma di lettera a un ragazzino ashanti, Kofi, che non ha mai lasciato Besoro e nulla sa del progresso, mettendo in luce il rapporto delicato che esiste tra la cultura occidentale e quella dell’Africa nera. Questa è la storia di Nana che un giorno spinta dal sogno di incontrare una suora, partì per un luogo lontano dalla sua terra, dalla sua gente, oltre l’imponente collina, là dove nessuno si era mai inoltrato. Dopo un lungo e faticoso viaggio Nana-Rosina approda in Italia, in Sicilia, dove trascorre un breve periodo prima di trasferirsi a Schio, paese natale della suora. Qui ad accoglierla però non è la donna che tanto desiderava conoscere, ma la notizia della sua morte di quasi mezzo secolo prima. Nonostante l’inaspettata delusione, Nana rimane colpita da Schio, dalla vita “frenetica” di chi le sta accanto, da un mondo così diverso in cui si è trovata catapultata all'improvviso: decide di fermarsi qui e di mantenersi facendo la colf. Per tutti questi anni Nana-Rosina non ha mai dimenticato il suo villaggio, le sue origini, il suo popolo, anzi, ci ha pensato continuamente. Per tutti questi anni Nana-Rosina ha sognato un futuro migliore per la sua terra, il povero Besoro: quello che voleva non era in realtà niente di così eccezionale, solamente una scuola, un ospedale e un pozzo, perché la sua gente potesse conoscere almeno una piccola parte di civiltà del nostro mondo. E questo piano, questo sogno la regina ha potuto realizzarlo proprio grazie all'aiuto dei suoi nuovi amici italiani. Nana è contenta. Pensa di aver fatto il suo mestiere di regina. Ma dopo qualche tempo si accorge, con sorpresa, che gli abitanti di Besoro sono diventati tristi. I loro occhi non sono più pieni di luce, limpidi, sereni. Si sono incupiti. E’ bastato poco, un niente per dissolvere equilibri millenari su cui la gente di Besoro viveva, felice nella sua povertà. Felice anche se ci si ammalava di malaria bevendo da uno stagno e si moriva un po’ prima di quanto si muoia da noi. Certo, oggi ci si ammala di meno di malaria a Besoro e forse si vive di più. Ma non erano queste le cose, che pur a noi appaiono fondamentali e imprescindibili che rendevano serena la gente di Besoro. Era una dimensione interiore che noi in Occidente, nonostante tutte le nostre conquiste tecnologiche e proprio a causa di esse, abbiamo perduto.

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Il piccolo pezzo di mondo occidentale si è rivelato il germe di una grande malattia. La malattia delle città. «Besoro è un piccolo villaggio immerso nella giungla subtropicale nel sud del Ghana, abitato dagli Ashanti, un’antichissima tribù, un tempo guerriera, che fino a un paio di secoli fa occupava vaste aree dell’Africa nera. A Besoro Modernità, Progresso e quella che noi chiamiamo civiltà non sono ancora arrivati. Una principessa del villaggio decide di fare un viaggio in Italia». (Dalla Prefazione de “La regina che faceva la colf”, di Massimo Fini). Nel libro “La regina che faceva la colf” Nana Konadu Yiadum (con Andrea Pasqualetto) racconta in prima persona la sua esperienza, sotto forma di lettera a un ragazzino ashanti, Kofi, che non ha mai lasciato Besoro e nulla sa del progresso, mettendo in luce il rapporto delicato che esiste tra la cultura occidentale e quella dell’Africa nera. Questa è la storia di Nana che un giorno spinta dal sogno di incontrare una suora, partì per un luogo lontano dalla sua terra, dalla sua gente, oltre l’imponente collina, là dove nessuno si era mai inoltrato. Dopo un lungo e faticoso viaggio Nana-Rosina approda in Italia, in Sicilia, dove trascorre un breve periodo prima di trasferirsi a Schio, paese natale della suora. Qui ad accoglierla però non è la donna che tanto desiderava conoscere, ma la notizia della sua morte di quasi mezzo secolo prima. Nonostante l’inaspettata delusione, Nana rimane colpita da Schio, dalla vita “frenetica” di chi le sta accanto, da un mondo così diverso in cui si è trovata catapultata all'improvviso: decide di fermarsi qui e di mantenersi facendo la colf. Per tutti questi anni Nana-Rosina non ha mai dimenticato il suo villaggio, le sue origini, il suo popolo, anzi, ci ha pensato continuamente. Per tutti questi anni Nana-Rosina ha sognato un futuro migliore per la sua terra, il povero Besoro: quello che voleva non era in realtà niente di così eccezionale, solamente una scuola, un ospedale e un pozzo, perché la sua gente potesse conoscere almeno una piccola parte di civiltà del nostro mondo. E questo piano, questo sogno la regina ha potuto realizzarlo proprio grazie all'aiuto dei suoi nuovi amici italiani. Nana è contenta. Pensa di aver fatto il suo mestiere di regina. Ma dopo qualche tempo si accorge, con sorpresa, che gli abitanti di Besoro sono diventati tristi. I loro occhi non sono più pieni di luce, limpidi, sereni. Si sono incupiti. E’ bastato poco, un niente per dissolvere equilibri millenari su cui la gente di Besoro viveva, felice nella sua povertà. Felice anche se ci si ammalava di malaria bevendo da uno stagno e si moriva un po’ prima di quanto si muoia da noi. Certo, oggi ci si ammala di meno di malaria a Besoro e forse si vive di più. Ma non erano queste le cose, che pur a noi appaiono fondamentali e imprescindibili che rendevano serena la gente di Besoro. Era una dimensione interiore che noi in Occidente, nonostante tutte le nostre conquiste tecnologiche e proprio a causa di esse, abbiamo perduto.

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