Un diritto incalcolabile

Nonfiction, Reference & Language, Law, Civil Law
Cover of the book Un diritto incalcolabile by Natalino Irti, Giappichelli Editore
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Author: Natalino Irti ISBN: 9788892153363
Publisher: Giappichelli Editore Publication: May 8, 2017
Imprint: Giappichelli Editore Language: Italian
Author: Natalino Irti
ISBN: 9788892153363
Publisher: Giappichelli Editore
Publication: May 8, 2017
Imprint: Giappichelli Editore
Language: Italian
  1. Le pagine, raccolte in questo libriccino, descrivono il tramonto, o la crisi, di un circolo logico, su cui riposa il moderno Stato di diritto. Dove: decidere la controversia, giudicare torto e ragione, applicare la legge, coincidono appieno, e l’uno sta per l’altro. Decidere la controversia è porvi termine, sciogliere dubbi di fatto e ambiguità interpretative, preferire una soluzione fra le molte possibili. Il decidere si appoggia sul giudicare; non nasce dal nulla, non è puro atto di volontà, ma risultato di un raffronto fra ciò che la legge ha previsto e ciò che è accaduto, tra antecipazione di ieri e realtà di oggi. In codesto raffronto risiede l’applicazione della legge. È famosa la proposizione del barone di Montesquieu, irrisa da zelanti o incolti novatori: “Mais les juges de la nation ne sont, comme nous avons dit, que la bouche qui prononce les paroles de la loi; des êtres inanimés, qui n’en peuvent modérer ni la force ni la rigueur” (Esprit des Lois, XI, chap. VI). Vi si esalta e garantisce la grandezza del giudizio legale, la relazione di coerenza e lealtà fra norma e decisione del caso concreto. Il giudizio, convertendo le ‘parole della legge’ in ‘parole della sentenza’, decide la controversia, in modo ‘inanimato’, cioè oggettivo e impersonale. Il circolo logico, di che sopra si è discorso, assicura la calcolabilità delle decisioni giudiziarie, le quali dipendono dal paragone fra schema normativo e fatto concreto. La descrizione del legislatore (la ‘fattispecie’) si protende verso il futuro, si sforza di pre-vedere e ingabbiare ciò che può avvenire. Il giudice – sussumendo il fatto concreto, qui ed ora compiuto da Tizio e Caio, entro la figura antecipatoria – riconduce il presente alla previsione legislativa. La norma volge verso il futuro; il giudizio sussuntivo muove dal presente verso il passato. Questo incontro nel tempo determina la qualifica del fatto e il suo trattamento giuridico. 2. I tre momenti – decidere giudicare applicare la legge – non vanno di necessità tutti insieme, e possono disgiungersi e stare a sé. Si può decidere senza giudicare. Il decidere ‘per valori’ è non tanto un giudicare, ossia assegnare predicati a un soggetto (un predicato legislativo a un fatto accaduto), quanto un prendere posizione; non un raffronto, ma un confronto. I valori – meglio si chiarirà in talune delle pagine qui raccolte – non hanno bisogno né di fattispecie né di giudizi sussuntivi, ma tendono a immediata e concreta realizzazione. La controversia è bensì decisa, ma senza quel giudizio in cui la legge definisce la vicenda concreta e ne fa un ‘caso’ della propria applicazione. La ‘concretezza’ di vita rifiuta di ridursi a ‘caso’, vuol rimanere se stessa, tutta gettata nel presente e nell’oggi. Mentre l’applicazione della legge è ‘inanimata’, o meglio non ha altra anima che quella del testo normativo, il decidere ‘per valori’ (o per ‘clausole generali’ o per altri criteri di ‘giustizia materiale’) s’immerge nella concreta situazione di vita, entra nel merito delle scelte negoziali, e le integra o modifica o corregge. Esso è del tutto incalcolabile e imprevedibile. La sua essenza sta proprio nell’adesione, piena e integrale, alle circostanze concrete, al gioco presente degli interessi, alle volontà esplicite o implicite delle parti. Il concetto di fattispecie, il ‘se A’ del giudizio normativo (se A, allora B), che sembrava indispensabile alla rappresentazione razionale del diritto, diviene uno vecchio e polveroso strumento da riporre in soffitta. Il valore si mette dinanzi al fatto, alla situazione di vita, che lancia un appello e attende risposta. 3. Insopprimibile è soltanto il momento del decidere. Il delitto di ‘déni de justice’ (art. 4 titre préliminaire Code Civil) è delitto di negata decisione. La decisione tronca la controversia; stabilisce ragione o torto, colpevolezza o innocenza; archivia il caso, e consente di andare al di là. Qualsiasi società – dalla tribù primitiva alla famiglia, dallo Stato alle comunità minori – ha bisogno di decisioni. La singola vicenda va comunque definita e chiusa nel passato: res judicata, appunto, quale che siano i modi e i contenuti della decisione. Non ci si può attardare oltre. Possiamo immaginare (o paventare) una società, in cui non ci siano norme con rigide fattispecie, né si svolgano giudizi sussuntivi, e invece si realizzino ‘valori’ e ‘clausole generali’ e principi di giustizia materiale, ma non una società senza decisioni. Una società immersa nel dubbio, lieta della propria problematicità e del perenne disputare, è soltanto un mito estetizzante. Bisogna ‘tagliar corto’, e proseguire alacri nel cammino. 4. Gli ordinamenti processuali esigono che la decisione sia motivata, cioè rechi in sé la giustificazione della scelta compiuta. La decisione non poggia sul niente, ma sulla qualsiasi motivazione, sottoposta al controllo delle istanze superiori: sulla prima decisione si sovrappongono altre decisioni. Ove la decisione sia disgiunta dal giudicare secondo legge, e affidata a ‘valori’ o altri criteri soggettivi, i diversi gradi del processo si risolvono in una catena di pure decisioni, in un sovrapporsi di esperienze esistenziali, che mettono capo a un dictum incontrollabile e incontrollato. L’obbligo o onere di motivazione, introdotto al fine di ‘giustificare’ la sentenza e di sottrarla all’arbitrio del magistrato, assume diverso significato. Altro è motivare con razionalità sussuntiva, ricongiungendo la fattispecie anticipatoria di ieri all’accaduto di oggi; altro, motivare mercé intuizionismo dei valori, cioè con immediata risposta alla situazione presente. Lì, la situazione di oggi si ‘astrattizza’ in termini impersonali e schematici; qui, essa stringe nell’insieme delle circostanze, delle giunture negoziali (la ‘operazione economica’), delle aspettative individuali. In ambedue i modi, si giunge alla decisione; la controversia è definita, i casi sistemati in archivio. Il decidere ‘per valori’ è un decidere senza giudicare, se col giudicare intendiamo la sussunzione nella fattispecie legislativa. O provvisto, anch’esso, di giudicare, quando questo sia scorto pure nell’immediata e concreta realizzazione del ‘valore’. Ma è altro e diverso giudicare. 5. Non sappiamo se il compito delle future generazioni, di legislatori scienziati pratici del diritto, sia di ‘razionalizzare’ i valori, ossia di calarli sulla terra e di tradurli in singole e particolari fattispecie. Si tratterebbe di considerarli non più come surrogati di fedi religiose o di principi naturali, ma come criteri di volontà, scelti e applicati dall’uomo nel suo cammino storico. O piuttosto se il vecchio sistema delle fattispecie sia destinato a completa rovina, e le situazioni di vita esigano risposte immediate, imprevedibili, incalcolabili. Allora, poiché non si dà un valore unico e supremo (è la nietzscheana ‘morte di Dio’), ‘terminale e bloccante’, i valori – come bene avverte Gianni Vattimo – si potrebbero “dispiegare nella loro vera natura, che è la convertibilità, e trasformabilità/ processualità indefinita” (Apologia del nichilismo, in La fine della modernità, Milano, 1985, p. 29). Che è il grado estremo del nichilismo. Il giudice diventa padrone dei ‘valori’ e pretende così di innalzare l’auctoritas della sentenza all’assolutezza di una veritas, la quale è, sempre e solo, atto di umana volontà. Queste pagine vanno percorse, chi proprio voglia leggerle, a ritroso: dalla terza parte, dove si abbozza una teoria generale del diritto, alla seconda, che introduce i temi inquietanti di dubbio caso decisione, fino alla prima in cui la crisi della tradizione si svela e dirompe con accenti drammatici. Roma, 5 aprile 2016
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  1. Le pagine, raccolte in questo libriccino, descrivono il tramonto, o la crisi, di un circolo logico, su cui riposa il moderno Stato di diritto. Dove: decidere la controversia, giudicare torto e ragione, applicare la legge, coincidono appieno, e l’uno sta per l’altro. Decidere la controversia è porvi termine, sciogliere dubbi di fatto e ambiguità interpretative, preferire una soluzione fra le molte possibili. Il decidere si appoggia sul giudicare; non nasce dal nulla, non è puro atto di volontà, ma risultato di un raffronto fra ciò che la legge ha previsto e ciò che è accaduto, tra antecipazione di ieri e realtà di oggi. In codesto raffronto risiede l’applicazione della legge. È famosa la proposizione del barone di Montesquieu, irrisa da zelanti o incolti novatori: “Mais les juges de la nation ne sont, comme nous avons dit, que la bouche qui prononce les paroles de la loi; des êtres inanimés, qui n’en peuvent modérer ni la force ni la rigueur” (Esprit des Lois, XI, chap. VI). Vi si esalta e garantisce la grandezza del giudizio legale, la relazione di coerenza e lealtà fra norma e decisione del caso concreto. Il giudizio, convertendo le ‘parole della legge’ in ‘parole della sentenza’, decide la controversia, in modo ‘inanimato’, cioè oggettivo e impersonale. Il circolo logico, di che sopra si è discorso, assicura la calcolabilità delle decisioni giudiziarie, le quali dipendono dal paragone fra schema normativo e fatto concreto. La descrizione del legislatore (la ‘fattispecie’) si protende verso il futuro, si sforza di pre-vedere e ingabbiare ciò che può avvenire. Il giudice – sussumendo il fatto concreto, qui ed ora compiuto da Tizio e Caio, entro la figura antecipatoria – riconduce il presente alla previsione legislativa. La norma volge verso il futuro; il giudizio sussuntivo muove dal presente verso il passato. Questo incontro nel tempo determina la qualifica del fatto e il suo trattamento giuridico. 2. I tre momenti – decidere giudicare applicare la legge – non vanno di necessità tutti insieme, e possono disgiungersi e stare a sé. Si può decidere senza giudicare. Il decidere ‘per valori’ è non tanto un giudicare, ossia assegnare predicati a un soggetto (un predicato legislativo a un fatto accaduto), quanto un prendere posizione; non un raffronto, ma un confronto. I valori – meglio si chiarirà in talune delle pagine qui raccolte – non hanno bisogno né di fattispecie né di giudizi sussuntivi, ma tendono a immediata e concreta realizzazione. La controversia è bensì decisa, ma senza quel giudizio in cui la legge definisce la vicenda concreta e ne fa un ‘caso’ della propria applicazione. La ‘concretezza’ di vita rifiuta di ridursi a ‘caso’, vuol rimanere se stessa, tutta gettata nel presente e nell’oggi. Mentre l’applicazione della legge è ‘inanimata’, o meglio non ha altra anima che quella del testo normativo, il decidere ‘per valori’ (o per ‘clausole generali’ o per altri criteri di ‘giustizia materiale’) s’immerge nella concreta situazione di vita, entra nel merito delle scelte negoziali, e le integra o modifica o corregge. Esso è del tutto incalcolabile e imprevedibile. La sua essenza sta proprio nell’adesione, piena e integrale, alle circostanze concrete, al gioco presente degli interessi, alle volontà esplicite o implicite delle parti. Il concetto di fattispecie, il ‘se A’ del giudizio normativo (se A, allora B), che sembrava indispensabile alla rappresentazione razionale del diritto, diviene uno vecchio e polveroso strumento da riporre in soffitta. Il valore si mette dinanzi al fatto, alla situazione di vita, che lancia un appello e attende risposta. 3. Insopprimibile è soltanto il momento del decidere. Il delitto di ‘déni de justice’ (art. 4 titre préliminaire Code Civil) è delitto di negata decisione. La decisione tronca la controversia; stabilisce ragione o torto, colpevolezza o innocenza; archivia il caso, e consente di andare al di là. Qualsiasi società – dalla tribù primitiva alla famiglia, dallo Stato alle comunità minori – ha bisogno di decisioni. La singola vicenda va comunque definita e chiusa nel passato: res judicata, appunto, quale che siano i modi e i contenuti della decisione. Non ci si può attardare oltre. Possiamo immaginare (o paventare) una società, in cui non ci siano norme con rigide fattispecie, né si svolgano giudizi sussuntivi, e invece si realizzino ‘valori’ e ‘clausole generali’ e principi di giustizia materiale, ma non una società senza decisioni. Una società immersa nel dubbio, lieta della propria problematicità e del perenne disputare, è soltanto un mito estetizzante. Bisogna ‘tagliar corto’, e proseguire alacri nel cammino. 4. Gli ordinamenti processuali esigono che la decisione sia motivata, cioè rechi in sé la giustificazione della scelta compiuta. La decisione non poggia sul niente, ma sulla qualsiasi motivazione, sottoposta al controllo delle istanze superiori: sulla prima decisione si sovrappongono altre decisioni. Ove la decisione sia disgiunta dal giudicare secondo legge, e affidata a ‘valori’ o altri criteri soggettivi, i diversi gradi del processo si risolvono in una catena di pure decisioni, in un sovrapporsi di esperienze esistenziali, che mettono capo a un dictum incontrollabile e incontrollato. L’obbligo o onere di motivazione, introdotto al fine di ‘giustificare’ la sentenza e di sottrarla all’arbitrio del magistrato, assume diverso significato. Altro è motivare con razionalità sussuntiva, ricongiungendo la fattispecie anticipatoria di ieri all’accaduto di oggi; altro, motivare mercé intuizionismo dei valori, cioè con immediata risposta alla situazione presente. Lì, la situazione di oggi si ‘astrattizza’ in termini impersonali e schematici; qui, essa stringe nell’insieme delle circostanze, delle giunture negoziali (la ‘operazione economica’), delle aspettative individuali. In ambedue i modi, si giunge alla decisione; la controversia è definita, i casi sistemati in archivio. Il decidere ‘per valori’ è un decidere senza giudicare, se col giudicare intendiamo la sussunzione nella fattispecie legislativa. O provvisto, anch’esso, di giudicare, quando questo sia scorto pure nell’immediata e concreta realizzazione del ‘valore’. Ma è altro e diverso giudicare. 5. Non sappiamo se il compito delle future generazioni, di legislatori scienziati pratici del diritto, sia di ‘razionalizzare’ i valori, ossia di calarli sulla terra e di tradurli in singole e particolari fattispecie. Si tratterebbe di considerarli non più come surrogati di fedi religiose o di principi naturali, ma come criteri di volontà, scelti e applicati dall’uomo nel suo cammino storico. O piuttosto se il vecchio sistema delle fattispecie sia destinato a completa rovina, e le situazioni di vita esigano risposte immediate, imprevedibili, incalcolabili. Allora, poiché non si dà un valore unico e supremo (è la nietzscheana ‘morte di Dio’), ‘terminale e bloccante’, i valori – come bene avverte Gianni Vattimo – si potrebbero “dispiegare nella loro vera natura, che è la convertibilità, e trasformabilità/ processualità indefinita” (Apologia del nichilismo, in La fine della modernità, Milano, 1985, p. 29). Che è il grado estremo del nichilismo. Il giudice diventa padrone dei ‘valori’ e pretende così di innalzare l’auctoritas della sentenza all’assolutezza di una veritas, la quale è, sempre e solo, atto di umana volontà. Queste pagine vanno percorse, chi proprio voglia leggerle, a ritroso: dalla terza parte, dove si abbozza una teoria generale del diritto, alla seconda, che introduce i temi inquietanti di dubbio caso decisione, fino alla prima in cui la crisi della tradizione si svela e dirompe con accenti drammatici. Roma, 5 aprile 2016

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